L’art.18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, tutela il lavoratore ingiustamente ed ingiustificatamente, licenziato, nelle imprese con più di 15 dipendenti.
La tutela, ove riconosciuto ingiustificato o ingiusto il licenziamento, comporta il reintegro del lavoratore nel posto di lavoro.
La tutela si colloca nel più ampio quadro di disciplina del rapporto individuale di lavoro, di cui alla legge 604 del 1966.
Premesso che, risulta difficile pensare che un datore di lavoro, si privi dell’apporto del lavoratore, ove non ci siano valide ragioni, la norma è a presidio di possibili anomalie, rispetto alla normalita e ragionevolezza.
Esiste uno spazio valutativo sul criterio di giustezza e giustizia del provvedimento di licenziamento.
La norma tenta di rappresentare un presidio dall’errore di valutazione.
E’ una norma di civiltà: licenziare è un verbo, il licenziato è una persona.
Togliere ad una persona il diritto al posto di lavoro, significa compromettere la vita di una persona, dei suoi figli, della sua famiglia, della sua esistenza.
Senza volere farne una norma totem, resistente a qualunque, anche lievemente informale, situazione.
Esistono casi nella periferia della dialettica paradossali, ossia di decisioni giuresprudenziali sbagliate. Rimane, però, il valore assoluto di una norma che tutela possibili ingiustizie.
Ciò che non riesco a capire, è il perchè si ritenga che una norma che tuteli da una possibile ingiustizia, debba essere un freno allo sviluppo dell’economia e del mercato.
Il gran discutere sull’art.18, mi appare deviante. Come se si volesse individuare un “colpevole” del mancato sviluppo di una azienda, casomai conseguenza di mancati investimenti.
Perchè questo gran bisogno di cambiare una norma che tutela un diritto, nell’interesse della stessa impresa e azienda? Perchè la liberalizzazione e sviluppo del mercato, dovrebbero passare dalla porta stretta dei diritti negati?
Sarò banale. Ancora non ho trovato qualcuno che spieghi, in concreto, come la tutela di un diritto violato, rappresenti un freno allo sviluppo.
Si assume, ancora, che la norma sarebbe di difficile applicazione, a causa di una giurisprudenza che ne avrebbe alterato limiti ed attuazione, con privilegio delle posizioni del lavoratore licenziato e il disconoscimento dei casi di giusta causa.
Si dice, quindi, che l’unico rimedio sarebbe quello della eliminazione, lasciando intangibile il recesso del datore di lavoro, non costringendolo al reintegro, anche se non riconosciuta dal giudice, la giusta causa.
In buona sostanza la variabilità della casistica, non potrebbe essere compiutamente valutata da un giudice, apparendo la decisione di reintegro, iniqua.
Per contrastare l’iniquità, a mio parere, si creerebbe altra iniquità: nel senso che sempre e comunque, il datore di lavoro avrebbe il diritto di recesso, compensando il lavoratore licenziato con il pagamento di alcune mensilità ( proposta Ichino).
Una soluzione del genere, potrebbe essere comprensibile ove esistesse mobilita’ e, quindi, la possibilità del lavoratore di trovare altra occupazione. In Italia c’e’ mobilita’? Questa e’ la domanda che dovremmo porci. In assenza di mobilità, il lavoratore licenziato senza giusta causa, dopo aver esaurito le risorse rappresentate da 10/15 mensilità, come vivrebbe?
Possiami prescindere da queste valutazioni? Non sarebbe, incece, da affrontare il problema dei diritti, per qualunque lavoratore che subisca un ingiusto licenziamento?
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